Per Elvo Tempia era un simbolo e un orgoglio, tant’è che la citava spesso: Remira Pizzoglio era la pensionata che incontrava spesso all’edicola di Tollegno dove abitavano tutti e due. Una volta al mese, tra i saluti e le chiacchiere, c’era anche un piccolo-grande rituale: lei consegnava a lui 10mila lire al mese, tirate fuori dalla busta della pensione appena incassata, come donazione al Fondo Edo Tempia. Questione di esperienze passate, raccontava la donna, perché tanti suoi familiari non erano sopravvissuti al cancro e lei stessa era stata operata due volte per un tumore al seno. Ma anche questione di fiducia: «Altrimenti non li avrei dati, state tranquilli» raccontò nel 2000 a Roberto Azzoni, storica firma di Eco di Biella che fu testimone dell’incontro, avvenuto qualche anno dopo gli incroci quasi quotidiani dalla giornalaia, nella casa di riposo in cui Remira Pizzoglio era ospite. Con il permesso dell’autore e della testata, vi riproponiamo qui di seguito la cronaca di quella giornata.
“La solita pensionata di Tollegno” si chiama Remira Pizzoglio e compirà 92 anni a novembre, il 14 per la precisione. Ogni mese da vent’anni dona al Fondo Tempia («Perché ci credo») 10mila lire della sua modesta pensione da operaia da un milione e 200mila lire.
Quando arriviamo, martedì pomeriggio, con il presidente e fondatore del Fondo Elvo Tempia, le lacrimano gli occhi. È seduta su una panca, nel corridoietto verniciato di fresco con verdi riposanti della casa di riposo Ciarletti di Pralungo, con alcune ospiti del bel ricovero. Per una coincidenza arriva con noi anche la nipote Piera. Subito Remira non capisce chi siamo, poi quando le spieghiamo si commuove. Tempia le aveva telefonato domenica: «Vengo a trovarla». E lei, che lo aveva conosciuto davanti all’edicola della Natalina a Tollegno, non lo ha dimenticato. Era, quella giornalaia, il punto di riferimento. Tempia, di Tollegno, passava tutti i giorni a prendere i quotidiani, lei anche. E così, quando l’iniziativa contro i tumori decollò nel 1981, Remira Pizzoglio prese la decisione.
«Ogni mese davo le 10mila lire. Se non incontravo Elvo Tempia» racconta «li lasciavo alla Natalina, che glieli dava lei». Era l’inizio della catena umana della solidarietà che tanto successo ha avuto. Il “patron” del Fondo non manca mai di segnalare nei suoi interventi «questo esempio, il più bello che abbiamo al Fondo». L’ente, sulla scia delle offerte a pioggia e dei lasciti milionari, ha raccolto quasi 30 miliardi, salvando ottocento vite in un Biellese dove i morti per tumore ogni anno sono circa 700. Remira è una vecchina lucida e tenace, di quelle che nella vita ne hanno passate di tutti i colori, per le quali la fabbrica e la casa sono state il bozzolo che le ha avvolte.
I tumori. La ricetta per arrivare a 92 anni? «Forse sono una bestia grama» dice con voce pulita e un sorriso, «ma ho sempre dato retta al dottor Meliga che mi diceva di mangiare prima la frutta, poi il secondo e poi il primo. L’altra regola è che con pastasciutta e polenta, quanta ne ho mangiata, non ci va il vino ma solo acqua».
Pur con questa dieta sana il tumore non l’ha risparmiata, colpendola ben due volte. La prima era già settantenne. Non ha remore a parlarne: «Una sera sono andata a dormire e l’indomani avevo un seno indurito. Sono andata subito dal dottor Dindelli che mi ha spedito d’urgenza in ospedale. Dopo la visita, il ricovero. E j’an tajame…». Da sola, nella casa vicino al mulino di Tollegno, Remira patisce le pene dell’inferno: «La chemioterapia per otto mesi, il senso di spossatezza, la voglia di vomitare. È stato veramente brutto». Ma si è salvata. E la seconda volta all’altro seno, già dopo gli ottanta, l’incisione, ma i medici decisero di lasciar perdere con la chemio: «Che le cose andassero come dovevano».
È stata quella la molla alla pioggia di offerte al Fondo Edo Tempia? «No» confida nonna Remira, «furono i morti di famiglia. Mio padre, poi i suoi fratelli. Ho creduto di fare bene così». Come vorrebbe che i suoi soldi venissero usati? «Per quel che serve, con tutti gli altri». Si fida? «Altroché, altrimenti non li avrei dati, state tranquilli».
La famiglia. Da giovane Remira non si è mai sposata. «Gli uomini non facevano per me e quelli di Miagliano, il mio paese, non li volevo. E poi c’era da fare intorno a mia madre e al lavoro». Il padre era morto un mese prima che “Remi” nascesse e le è mancato un punto di riferimento forte. Il fratello Primino, deceduto qualche anno fa, era dominante in casa ma, adulto, emigrò in Bolivia poi in Perù, dove abita la famiglia dei nipoti. «Anche lui per un tumore, dannato male…».
Il matrimonio arrivò quando Remira aveva 62 anni, già in pensione da sei. «Volevo ritirarmi al Cottolengo ma poi avevo conosciuto questo vedovo, un parente alla lontana, e mi convinsi alla convivenza». Lo sposo si chiamava Antonio Martinazzo, coetaneo. «Con lui sono stati quattro anni di lacrime» racconta Remira: «era di una gelosia folle. Gli dicevo: “Sei geloso anche dell’aria che respiro”. Non voleva che andassi a lavare la roba ’n t’la rugia ’d Miaian, non voleva che andassi a fare la spesa all’A&O. Ma io non gli concedevo nulla. Poi venne malato, un tumore che lo ha ammazzato…».
La più grande soddisfazione per nonna Remira è stata quella di poter seguire il piccolo Edoardo, figlio della nipote Piera. «Andavamo via cantando su fino alle Bazzerre e poi a piedi fino a Miagliano». Aveva quasi ottant’anni. Ora, nella cameretta della “Ciarletti”, dove è entrata dopo i 91 anni festeggiati ancora in famiglia l’altro novembre e dopo aver rifiutato due ricoveri a Occhieppo e a Camburzano, conserva il mazzo di carte con il quale giocava con il bimbo. Su un ripiano un quadretto con le foto di famiglia: la mamma in cortile, il ritratto del marito defunto e di altri amici. «Loro non parlano, parlo io con loro. In questa vita difficile, se non avessi avuto fede…».
La fabbrica. Quarant’anni di lavoro. Tra “La Pola”, la filatura storica di Miagliano e altre piccole e grandi aziende come il lanificio Cartotti, tra Cossato e Valle Mosso, piccole aziendine di passaggio come la Mainardi o l’emigrazione a Varallo «dove stavo in Convitto». «Ogni tanto eravamo licenziate» racconta Remira «e allora si cercava un posto nuovo. A me è toccato più volte di fare la “serventa” a casa delle madame. Ma tutte mi volevano bene. Una volta» ricorda «ho anche assistito un ragazzo paralizzato per molti mesi, Ezio il suo nome, fino a quando mancò. Che tristezza».
Ma l’orgoglio è la fabbrica, la filatura. «Una tedesca mi insegnò un modo per attorcigliare i fili che risparmiava materia prima. Divenni maestra e il diretur mi chiamava: “Remira, non voglio che lavori tu se ti ho messo a insegnare alle altre, smettila”. Ma come facevo, una era lenta, un’altra aveva bisogno…».
Mentre chiacchieriamo entra Clara, una signora già nonna, una sua allieva: «Ciao Remi, come va?». La fotografia con Elvo Tempia è d’obbligo. La “solita” pensionata gli stringe la mano. Sorride e si commuove ancora. Una storia semplice, un esempio per tutti.
Roberto Azzoni, Eco di Biella del 23 marzo 2000